La vicenda ha inizio nel 1992: nel 2023 il dicastero aveva dimezzato la cifra stabilita dal Tar
Le condizioni di salute non consentono a un agente di polizia penitenziaria di svolgere un lavoro operativo, chiede così di avere assegnato un altro ruolo ma viene “accontentato” solo dopo quasi venti anni, durante i quali rimane senza stipendio.
La vicenda inizia nel 1992, anno nel quale l’agente viene sospeso dal servizio, ed è stato necessario attendere ben nove anni l’esito di una sentenza del Tar nel 2003, e altri tre anni, una conferma del Consiglio di giustizia amministrativa nel 2006, per stabilire che doveva essere effettuato un nuovo accertamento medico. Se tutto questo tempo non fosse già stato abbastanza, il ministero continuava a non fissare la visita ed era necessario un giudizio per fare eseguire la sentenza. A seguito della visita, il lavoratore veniva finalmente dichiarato “idoneo”. Solo nel 2012, quindi, dopo oltre 20 anni di calvario, l’agente scelto del corpo di polizia penitenziaria veniva inquadrato come amministrativo in un ufficio del ministero a Trapani.
Per tutto il periodo tra il 1995 e il 2012, però l’agente non ha ricevuto lo stipendio, come più volte richiesto. Per questa ragione, nel 2015, l’uomo ha deciso di affidarsi allo studio legale Palmigiano e Associati e, con l’assistenza degli avvocati Alessandro Palmigiano e Licia Tavormina, ha avviato una causa per ottenere un risarcimento economico. Con sentenza del 2023, il Tar ha accolto la tesi di Palmigiano e Tavormina e ha quantificato la somma per l’equivalente del 50% delle retribuzioni, tenendo conto che, in quegli anni, l’uomo aveva comunque svolto qualche attività, per una somma di 155.462,82 euro, oltre agli interessi. Ma il ministero, invece di procedere con il pagamento, ha chiesto al lavoratore di “rendere dichiarazione delle somme eventualmente percepite a qualsiasi titolo nel periodo 18 marzo 1995 e fino al 2012” e trasmettere la relativa documentazione. La richiesta era superflua però, visto che il Tar, nel calcolare la somma dovuta, aveva già tenuto conto delle eventuali somme percepite, liquidando di fatto il 50% della somma complessiva degli stipendi.
Il ministero, invece, “illegittimamente” secondo la tesi dei legali, ha effettuato una ulteriore riduzione, detraendo da tale somma quanto percepito dal lavoratore in quegli anni e pagando unicamente la somma di 79.565,29 euro. Per di più, contrariamente a quanto stabilito dal Tar, non applicando alcuna somma a titolo di interesse.
Con provvedimento n. 2778 del 7 ottobre 2024, il Tar ha finalmente messo fine ad una vicenda lunga quasi 30 anni, condannando il ministero della Giustizia ed il ministero dell’Economia ad attenersi alle cifre indicate in sentenza e, quindi, a pagare l’ulteriore somma di 76.071,56.
“Sono lieto del risultato – ha commentato Alessandro Palmigiano, managing partner di Palmigiano e Associati –, la vicenda meritava giustizia sia sotto un profilo morale che per il risarcimento del danno. Una storia lunga trent’anni che finalmente trova un esito positivo”.